Un racconto-riflessione liberamente ispirato all'attentato del Bataclan, avvenuto nella notte tra il 13 e 14 novembre di un anno fa.
Alle innocenti vittime di quell'insensata follia.
Dicembre inoltrato. Un venerdì sera freddo, buio e piovoso come non se ne vedono da settimane.
Un uomo cammina lungo una strada deserta e poco illuminata, la testa bassa coperta dal cappuccio del giubbotto nero, con il bavero alzato a proteggere la faccia dalle violente raffiche di vento. Un borsone scuro pende dalla sua spalla destra, tanto pesante da rendere l’andatura dell’uomo un po’ sbilenca.
Contemporaneamente, in un piccolo
appartamento dall’altra parte della città, due giovani studentesse stanno guardando la tv sul letto, avvolte da un morbido plaid. Hanno deciso di non uscire come al solito. Non hanno voglia di andare da nessuna parte, fa troppo freddo. La terza coinquilina, invece, vorrebbe andare ad una festa in un locale. È tutto il pomeriggio che discutono animatamente. Alla fine, però, la vena festaiola ha la meglio anche sulla temperatura glaciale. Le tre ragazze si preparano abbastanza velocemente e si avventurano tra le strade bagnate. Sono piuttosto gasate perché si prospetta loro una festa davvero bella. Ridono e scherzano, stringendosi nei loro cappotti e camminando veloci sui tacchi, cercando di scaldare le gambe scoperte. Non hanno infatti rinunciato alla minigonna, nonostante il gelo. Arrivate al locale della festa, lo trovano gremito. Ci sono un sacco di altri ragazzi della stessa età, che ballano e bevono. L’atmosfera è allegra, scaldata dalla musica e da fiumi di alcool che inebria. Tanti sono già brilli, qualcuno è addirittura ubriaco. Le tre si lanciano in pista, con i loro cocktail in mano e la voglia di divertirsi al massimo. Sono da poco passate le 11 e prevedono di andare avanti tutta la notte. Hanno l’energia dei venti anni, che le fa sentire invincibili.
Nel frattempo l’uomo continua a camminare nel vento, con il freddo che si infila fin dentro le ossa. Il borsone è pesante, la spalla inizia a fargli male, è stanco. Ma non si arrende. Prosegue, ostinato. Testa china e occhi fissi davanti a sé. Più il vento ulula e la pioggia si fa fitta, più lui avanza veloce. Sembra avere un obiettivo preciso.
Nel locale, il volume della musica si è alzato, c’è ancora più gente, continuano ad affluire persone. Le ragazze si sono separate, ognuna ha trovato qualcuno con cui flirtare, o meglio, farsi offrire da bere. Nessuna vuole andare oltre le chiacchiere, non sono tagliate per gli amori da una sera e via. Però, non rinunciano mai a farsi offrire qualche drink da un bel ragazzo. In fondo, non c’è nulla di male a flirtare un po’. Si sono perse completamente di vista, il locale è grande e pieno, è abbastanza normale. A fine serata si rivedranno per tornare a casa insieme, parlando dei giovanotti che hanno conosciuto. Non immaginano cosa sta per succedere.
L’uomo si è fermato nella rientranza di un portone, al riparo dalla pioggia e da occhi indiscreti. Appoggia il borsone a terra. Riprende fiato qualche minuto. Poi apre il borsone e tira fuori un lungo cilindro nero. Lo guarda attentamente alla luce di una torcia. Lo accarezza lentamente, attentamente. È pensieroso. Sa bene cosa deve fare e spera di avere abbastanza coraggio da farlo. Dopo qualche minuto, rimette l’oggetto nel borsone, se lo rimette in spalla e si stringe ancora di più nel giubbotto. Esce e riprende la sua marcia, silenziosa ed ostinata. Le strade sono sempre più vuote. Rimangono in giro pochi ragazzi brilli e festanti, qualche clochard e altra gente poco raccomandabile. L’uomo non si accorge di quello che succede attorno a lui, completamente assorto nei suoi pensieri.
Nel locale, si continua a ballare. La musica è sempre più alta, frenetica e in pista c’è sempre più vita. Corpi sudati che si stringono, si strofinano, si fondono nel ritmo. L’alcool continua a fluire senza sosta. Tutti sono brilli, ubriachi o fatti. Infatti, qualcuno ha messo in circolo pasticche, acidi e altre droghe. Chi più chi meno, sono tutti in preda allo sballo. Si stanno divertendo tutti.
Ad un tratto l’uomo si ferma, proprio davanti ad un’insegna al neon che illumina tutta la strada. Dal borsone, estrae nuovamente il cilindro nero. È un kalashnikov.
Si guarda attorno un secondo, poi fa fuoco. I primi ad essere colpiti sono un gruppo di ragazzi che stanno fumando sotto una pensilina. Poi, i buttafuori. Una volta spianata la strada, l’uomo fa irruzione nel locale. Inizia a sparare a raffica, senza curarsi minimamente di mirare. La calca gli dà la sicurezza che comunque colpirà qualcuno. I ragazzi iniziano a fuggire da ogni parte, finendo con l’intralciarsi a vicenda. Tutti corrono come topi in trappola, alcuni troppo fatti per scappare si accasciano al suolo, accanto ai corpi di chi è già ferito o morto. Le mura del locale iniziano a tingersi di rosso, il pavimento è un lago. Qualcuno riesce a fuggire all’esterno, qualcun altro tenta di nascondersi. I ragazzi si rifugiano dappertutto. Dietro i divanetti del privè, negli armadi del guardaroba, dietro l’attrezzatura del dj. Ogni angolo diventa un possibile rifugio, ogni cosa un possibile scudo. La musica continua a suonare, il dj è stato freddato e nessuno l’ha spenta. L’uomo continua a ricaricare e sparare a velocità folle. Alla fine la pista è coperta di corpi, è impossibile distinguere i vivi dai morti. Allora, l’uomo inizia a mirare a terra. Vuole uccidere. Uccidere il più possibile. Quando ritiene di aver svolto il proprio compito, esce.
Il locale è adesso lugubre. La musica continua, sottofondo della carneficina appena avvenuta. Dovunque sangue, carne lacerata e dolore. Fuori, il vento ulula più forte e la pioggia cade copiosa, come a voler lavare via l’orrore della morte.